EVENTI: La Passione secondo Matteo - Vangeli astratti - Genesi del Mondo e Genesi dell'arte - Genesi - Monografia


MONOGRAFIA

Yves Bonnefoy
Dévotion.
Cesare Greppi
Dal Confine.
Günter Kunert
Sparse sul sentiero del bosco.
Nel sentiero d’ombra
Pavlos Màtesis
Per la pittura di Roberto Demarchi da uno scrittore che
impara a scrivere da Goya
.
Titos Patrikios
Caos e luce nella pittura di Roberto Demarchi.
Camillo Pennati
I fondi nero di Demarchi.
Giovanni Raboni
Come uno che sta sognando e sa
Roberto Rossi Precerutti
La città della mente di Roberto Demarchi.
A un remoto fiammeggiare. Omaggio a Roberto Demarchi.
Emanuele Severino
Luce che brilla ovunque, oscurità dei sentieri, potenza della verità.
Andrea Zanzotto
– (Giù, lungo la stradella nella forra con viva corrente).

A UN REMOTO FIAMMEGGIARE. OMAGGIO A ROBERTO DEMARCHI*
di Roberto Rossi Precerutti

Nel febbraio del 1953 Nicolas de Staël, navigando in prossimità dell’isola di Terranova, scrive a René Char: “E’ straordinario l’oceano nei suoi tempi e movimenti, sempre inquieto, mutevole ogni istante e quali squarci al tramonto con quelle piccole nubi pallide che sembrano ridere del peso delle onde azzurre, verdi, serpenti, specchi meravigliosi, quanta armonia in tanta esplosione gioiosa”.
Un sentimento di consimile mutabilità – accesa da mirabili tagli di pura luce, felicemente conflagrata in sfavillanti ostensori di mattinale trasparenza o infinitamente moltiplicata in fulgidi dardi affioranti dal fondo di uno specchio oscuro – è la prima suggestione, come da un altrove di lontananza, che l’osservatore
riceve contemplando le grandi tavole del pittore torinese Roberto Demarchi.
Mutabilità inquieta di materia e forma, innanzi tutto; indagine sul principio (arché) che è ciò da cui derivano e in cui si risolvono tutti gli esseri e anche, come afferma Aristotele interpretando il pensiero dei filosofi della physis, realtà che continua ad esistere immutata, pur attraverso il processo generativo di tutte le cose.
Un nero, dunque, cifra del chaos. Bituminoso, brulicante di presagi, commosso da un’attesa di luce; grembo che si schiude, che deve schiudersi, a un accadere. Assenza che si strugge a diventare durata: un prima del tempo che si fa dispiegata minaccia, che si risolve in funebri bagliori – torce di sangue volteggianti nel palazzo degli Atridi la notte dei macelli – o in salmodiante luce (da chaos a kosmos), tale da far implodere quadrai e rettangoli di colore, gli uni agli altri legati da un sottile gioco allitterante o metonimico.
Luce, ancora e sempre: come se fosse possibile, da una qualche ombra mormorante, filialmente esistere. Luce messaggera di un deus absconditus, verso un nessundove. Ritorna come struggente epifania di salvezza, di perdono. Serpeggia nei bianchi grumosi o traslucidi, erompendo in getti altissimi di algida perfezione cristallina o spargendosi, lebbra di morte, su arcipelaghi di livide piaghe e concrezioni. Sfolgora negli squilli del verde, memoria di una primavera del mondo, o nell’oro liturgico di una ideale iconostasi. Si accende nella vittoria del rosso, infinita; gonfalone quasi di una sfarzosa estate di frutti, sangue effuso da una preziosa ferita. Abita il baluginante tremito dell’azzurro che si spalanca su un sorpreso vuoto attraversato da pulviscoli di richiami. Fende, luna elettrica, il manto quaresimale e nel contempo sontuoso dei viola. Scioglie volanti appelli nelle allusioni naturalistiche che i bruni e gli ocra esibiscono per disperata fedeltà alla terra. Screzia d’incandescenti ceneri le vive pietre dei grigi.
Quest’ombra visitata da un radioso albeggiare, uovo d’argento della Notte da cui sorge Eros/Fanete, “colui che mostra ciò che non c’era prima”, si compone in armonie musicali, in stupefatti silenzi; cela in sé, come lo splendente germe di un evento luminoso: il sacro si dispone nell’impercettibile spazio di nostalgia che separa l’origine, per sempre smarrita, dalla cosa che si compie nel suo precipitare.
La densità concettuale delle opere che formano, in un reticolo di sorprendenti variazioni, la serie sulla natura di Demarchi, è in un certo senso il prodotto dell’inquieto sguardo del pittore, che dopo la distruzione e il ripudio dei moduli figurativi, approda a una allargata e, insieme, furibonda e struggente ricostruzione del reale per mezzo di una strenua tensione formale necessitata dalle pure altezze, dagli impervi profili di un linguaggio astratto di inusitato vigore.
Ora, A un remoto fiammeggiare nasce dall’esigenza indicata da Yves Bonnefoy di gettare del linguaggio “nell’esperienza del pittore, nel suo sguardo sul mondo” perché le parole, cui per qualche momento è sottratta la consueta visuale, possano attivare come uno sguardo più diretto, più all’interno dell’oggetto, più capace d’immediato”, dimorando sulla soglia di una conoscenza nuova.
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*Roberto Rossi Precerutti, Elogi di un disperso mattino, Milano, Crocetti 2003.

 


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