Antonio Paolucci presenta “Genesi” di Roberto Demarchi PARTE I° – PARTE II° i testi del catalogo Antonio Paolucci – Genesi Sergio Givone – Genesi | GENESI di Sergio GivoneDopo il Peri physeos, la Genesi. Roberto Demarchi prosegue nella sua coraggiosa esplorazione dell’origine. Prima era l’origine così com’è stata pensata dai Presocratici, ora è l’origine di cui parla il primo libro della Bibbia. Prima era l’origine come arché, ora è l’origine come creazione. Prima era l’origine come fatto metafisico, ora è l’origine come gesto creaturale. Fedele a se stessa, la pittura di Demarchi si trattiene su quella soglia estrema da cui è possibile sorprendere le forme nascenti e il loro darsi allo sguardo. Doppia fedeltà, questa: tematica e stilistica. Infatti la materia è sempre quella: è l’origine. Anzi, è il suo stesso originarsi. E’ l’originario venire alla luce della realtà, grazie a un atto non meno misterioso che splendente. Ma non solo la materia è sempre quella, perché lo è anche la sua rappresentazione: interamente giocata su geometrie che strappano all’assoluto buio iniziale un altrettanto iniziale lampeggiamento cromatico. Eppure fra la concezione greca della natura increata e l’idea biblica di creazione, come ben sappiamo, c’è un abisso. Donde la questione: se la differenza debba essere tolta, in forza di un sapere dell’immagine che ignora le antitesi logiche e mitologiche, o se invece essa si lasci scoprire nelle pieghe e nelle sfumature di un discorso pittorico che pur restando identico a sé, tuttavia asseconda le provocazioni che l’argomento gli lancia. La pittura di Demarchi autorizza entrambe le ipotesi. Ma è soprattutto la seconda, quella che insiste sulla differenza, a meritare la più attenta considerazione. Vero è infatti che siamo di fronte a quel punto assolutamente primo in cui l’origine è origine e nient’altro. Dunque, origine che non ha ancora dato luogo a due diversi scenari: quali sono invece quelli che ci parlano di una natura increata, da una parte, e di creazione, dall’altra. Ma è anche più vero che non c’è tavola di Genesi che non dica la lontananza da Peri physeos; non c’è tavola di Genesis che non chieda di essere contemplata e interpretata secondo categorie sue proprie e non implichi una diversa concezione della realtà, sia sul piano metafisico sia su quello religioso. Si prenda ad esempio la prima di queste tavole, ossia La separazione della luce dalle tenebre. Perfino più profondo del buio presocratico è il buio biblico su cui si staglia in verticale, quasi a unire terra e cielo, la fenditura che è tutt’uno con il fiat divino, con il sorgere della luce. Più profondo perché preceduto da un abissale azzurro tenebra a cui il nero chiede sostegno. Dunque, questo buio (che non è primo ma secondo) rinvia ad altro. E a che cosa, se non alla luce che è prima della luce? A che cosa, se non a Dio e alla sua parola creatrice che è luce da luce? Tutto qui è appeso alla libertà di un atto sovrano. Non alla necessità dell’essere che non può non essere. Non alla sostanza che è da sempre. Bensì ad una decisione che non dà ragione di sé. Nel quadrato che sfonda il doppio rettangolo tenebroso brilla la luce come nel mattino del mondo. Perlacea, tenera, delicata. Forse già addirittura amorosa. In una parola: luce creaturale. Non meno evidente è tutto ciò nelle tavole dedicate al dividersi delle acque superiori dalle acque inferiori (secondo giorno) e al ritirarsi delle acque e all’apparire dell’asciutto (terzo giorno). Qui la terra acquista consistenza di archetipo, matrice e tomba, anch’essa profondamente radicata nell’invisibile e nell’al di là da venire, ma già capace di sprigionare quel puro azzurro etereo che è quasi un presagio di redenzione. Là invece l’azzurro cupo del mare e l’azzurro trascolorante del cielo si allontanano, si richiamano, si specchiano vicendevolmente e in perfetto equilibrio; ma quanto stabile, questo equilibrio, e quanto duraturo, nessuno può dire, poiché l’opera della creazione è grazia e dono e dunque continuamente minacciata dalle stesse potenze che concorrono a produrla, in particolare le potenze della separazione. Solo il terzo e il quarto e il quinto giorno la creazione si configura qual è veramente. Vale a dire: non tanto come separazione ordinatrice che istituisce un mondo abitato dallo spirito a partire dal nulla (anche la metafisica greca conosce l’azione del logos attraverso cui il cosmo è tratto fuori dal caos primordiale), ma come vera e propria creazione: delle stelle nel firmamento, del sole e della luna (quarto giorno), degli uccelli nel cielo e dei pesci negli abissi (quinto giorno), dell’uomo e della donna (sesto giorno). Ma c’è di più: c’è che l’uomo e la donna, non la natura, esprimono l’intentio creatrice nella sua pienezza. Sono loro, l’uomo e la donna, separati e tuttavia anche più profondamente uniti, a irraggiare luce riflessa dall’alto – e quale luce sappiamo. Se per la metafisica greca i mortali non sono che ombre destinate a lasciare il posto ad altre ombre sulla scena della vita, invece il libro della Genesi definisce l’uomo e la donna a partire dalla capacità di bene e di male che li fa sicut dii. La tavola numero 6 dice splendidamente la luce divina su ogni volto umano, dice la dignità che è appunto la capacità di bene e di male. Infine (settimo giorno) Dio che si riposa. Ma anche: Dio che si raccoglie in sé, dopo aver compiuto la sua opera. In questa tavola riconosciamo, disposti sincronicamente come se gli eventi che hanno scandito l’intero processo fossero consegnati all’unità originaria da cui sono scaturiti, tutti i colori della creazione. Il bianco abbagliante dietro il nero che anziché accecare delimita e fa essere. Tutte le tonalità dell’azurro. Il bruno, l’ocra, di nuovo il nero. Non sono colori simbolici. Non sono colori allegorici. Sono i colori della creazione. Ossia i colori che l’artista – impresa temeraria quant’altre mai – ha voluto trar fuori dal cuore stesso dell’origine, disponendosi ad accogliere la rivelazione biblica con spirito non diverso da quello che lo aveva portato a prestare ascolto all’insegnamento greco. |