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Antonio Paolucci
presenta “Genesi” di Roberto Demarchi

PARTE I°PARTE II°

i testi del catalogo

Antonio Paolucci – Genesi
Sergio Givone – Genesi

GENESI
di Antonio Paolucci

C’è una linea riconoscibile che attraversa tutta intera la storia della pittura italiana. A volte si inabissa come un fiume carsico per poi riemergere in gloria e splendore. Comincia con Giotto “spazioso” – la scoperta del vero nella certezza dell’universo misurabile – continua con Piero della Francesca e con la visione prospettica rinascimentale, tocca il culmine con il “divino” Raffaello, attraversa l’età del Barocco con il “bello ideale” di Annibale Carracci, di Domenichino e di Guido Reni, arriva fino al Novecento di Carrà e di Morandi, di Burri e di Fontana.
È la linea che altri hanno chiamato della “classicità”. Forse potremmo meglio definirla la linea della ricerca (e poi della intuizione e della rappresentazione), dell’ordine insieme razionale e poetico che governa il mondo visibile. Di questa tendenza stilistica riflessiva e speculativa, fondata sulla felicità del ritmo e delle proporzioni, sulla appagata filosofica contemplazione della natura delle cose, partecipa Roberto Demarchi, torinese.
La città di nascita e di formazione è importante. “Torino è piuttosto una città di malinconica e silenziosa grazia, di esatte geometrie attraversate dal fuoco sottile della meraviglia barocca…”, scriveva nel 2003 Roberto Rossi Precerutti a introduzione della monografia dedicata al pittore. Ed è – aggiungeva – una città che consente di rivolgere alle cose uno sguardo “distante”. Perché solo lo sguardo “distante” può diventare “definitivo”. Demarchi lo sa bene.
La città dunque – la ortogonale metafisica Torino – e poi gli studi: il liceo classico e la laurea in architettura al Politecnico. Qui, al punto di incrocio fra la filosofia e i miti degli antichi e 1′ “ordo mentis” del costruttore, stanno le radici di Demarchi. Un pittore persuaso della poeticità della ragione o della razionalità della poesia. Non saprei come meglio definire la sua arte.
Un simile atteggiamento mentale – fare emergere le ragioni poetiche che danno significato alla contemplazione delle cose – a un certo momento del percorso di Demarchi (siamo nel 2001, è l’anno che vede prendere forma il ciclo del Perì Physeos) incontra la dimensione epica e cosmogonica; quella di Talete di Mileto e dei presocratici, di Esiodo e di Lucrezio.
É possibile, nella obliqua ortogonale Torino di Nietzsche e di Casorati, di Lionello Venturi e dell’Arte Povera, immaginare una estetica fondata sul numero, sull’armonia, sulle proporzioni, sulla simmetria?
La risposta me l’ha data il pittore stesso in una lettera che conservo: “Il mio tentativo è stato quello ed è tutt’ora di fare apparire dai fondi neri (metafora del Kaòs) un sistema ordinato attraverso una infinita possibilità di combinazioni di due forme elementari (quadrato e rettangolo), combinazioni regolate spesso da rapporti geometrici, sezioni auree etc… in cui l’elemento fondamentale è la luce che diviene forma sensibile attraverso il colore (manifestazione dell’Arkè)”. Questa è la chiave per entrare in “Genesi”, nel vertiginoso racconto cosmogonico al quale il pittore, allo zenith della vita e dell’arte, ha dedicato il suo ultimo ciclo.
Mi piace che le sette tavole che raccontano i sette giorni della Creazione, siano allestite nella sala espositiva dell’Archivio di Stato di Torino: un ambiente monumentale, oscuro e severo, come una cripta o come un bunker spazioso. E’ giusto che sia così. Ci voleva una cornice spoglia e silenziosa, metafora del Nulla sul quale si librava lo spirito dell’Eterno, perché la cosmogonia di Demarchi acquistasse significato.
Disse Dio: “Si faccia la luce e la luce fu”. È il primo giorno del Genesi. Sul supporto di legno che lascia intravedere le sue venature (la misura del quadro e la tipologia delle essenze sono, per Demarchi, elementi propedeutici e progettuali fondamentali) dilaga il vasto nero acrilico, bituminoso, scintillante e opaco, vibrante sulla trama del supporto, il nero della notte che cede spazio alla luce. Quanti neri vivono in un nero, come può essere multiforme e ipnotico il nero nelle sue varianti, la tecnica pittorica di Demarchi ce lo fa capire. Sono virtuosismi di mestiere, sono raffinate varianti polimateriche. Quello che conta è il risultato. Importante è che emerga l’atemporalità, l’infinitudine, l’immanenza di quel nero ontologico dai cui abissi la parola dell’Altissimo fa scaturire la Luce.
“Disse ancora Dio: si faccia il firmamento in mezzo alle acque e divida acque da acque”. È il secondo giorno della Creazione. L’universo comincia a prendere forma. Il tema è quello dell’acqua. Dio separa le acque che stanno sopra il cielo da quelle che occupano la terra e i colori, nella interpretazione di Demarchi, sono quelli dell’acqua: luminoso azzurro, blu notte, stesure cromatiche vibranti, gioiose. Il pittore ha steso, su un fondo nero, pigmenti acrilici, vernici, cementi, colle, aniline. Il risultato è straordinario. L’acqua è il fresco splendore di un mondo che sta nascendo, il quadro è come uno specchio azzurro che riflette il sorriso di Dio di fronte al miracolo delle equoree distese.
Il terzo giorno Dio disse: “Si radunino in un sol luogo le acque che sono sotto il cielo ed apparisca l’asciutto”. Ed ecco la terza tavola dove si vede emergere, fra il nero e l’azzurro, la terra. Sono colori di ocra e di bruno, sono sapienti stratificazioni di stucco, sono dorati grumi di pigmenti. Dentro il quadrangolo che qui e nelle altre tavole del ciclo è figura dell’ordine razionale di Dio (come non pensare alla rettangolare pietra nera di Kubrick in 2001 Odissea nello spazio?) sembra vibrare e tremare la densa materia dalla quale scaturisce la vita.
“La terra germogli erbe verdeggianti che facciano il seme ed alberi fruttiferi che facciano frutti secondo il loro genere, ed abbiano in sé stessi il proprio seme sopra la terra”. Sono le parole di Dio il terzo giorno di fronte alla terre emerse e nel quadrangolo bruno e ocra che splende fra l’azzurro delle acque e il nero della notte, tutto questo è rappresentato.Il quarto giorno della Creazione vide il cielo popolarsi di astri: rosso fuoco il sole, bianco latte la luna e, al centro, il quadrato nero aureolato di luce a significare l’universo infinito popolato di stelle, gli abissi abitati da galassie lontane da noi miliardi di anni luce. Tutto questo fece l’Onnipotente il quarto giorno.
Disse ancora Dio all’alba del quinto giorno: “Producano le acque vivi animali striscianti, e volanti sopra la terra, sotto il firmamento celeste”. È una delle interpretazioni più belle forniteci da Demarchi. Il quadro si divide in due partiture, due come i settori che la Parola Creatrice ha designato. C’è la striscia blu e verde cupo del firmamento, c’è il nero denso e profondo, lavorato a stucco e vernici ad acqua, della madre terra. L’uno e l’altro brulicano di forme. Sono abitati dai segni appena visibili della vita incessante. È il palpitante respiro cosmico fatto di animali striscianti e volanti che il pittore (ecco all’opera l’intelligenza poetica di Demarchi…) ha significato per allusione e per evocazione.
“Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza … e creò Iddio l’uomo ad immagine sua; ad immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. Il capolavoro del Creato è l’Uomo, signore della terra e di tutto ciò che sulla terra vive, immagine di Dio che lo ha voluto al compiersi del sesto giorno. “Maschio e femmina li creò” – dice la Bibbia – e due rettangoli perfettamente uguali, esatti e imperiosi nella teologale figura geometrica che afferma la similitudine (“a sua immagine…”) ma al tempo stesso prefigura la ribellione (“Quis ut Deus?…), occupano la scena.
“Così furono compiuti i cieli e la terra, ed ogni loro ornamento. E finì Dio al settimo giorno l’opera da lui creata; e si riposò nel settimo giorno”. Nelle parole del Libro il Riposo di Dio è un evento epicamente grandioso. Sembra di avvertirlo, disteso su tutto il Creato, a infinitamente contemplare le erbe dei campi e le galassie innumerevoli, gli uccelli del cielo e il moto degli astri, le creature che nuotano nelle profondità dei mari e le opere e i giorni degli uomini.
Dando immagine alla settima scena, Demarchi chiude il ciclo con un dipinto che vorrei definire di teologia figurata. È l’acme dell’intero percorso, è la tavola che tutte le altre riassume e significa. Giocando con ammirevole sapienza tecnica di colori acrilici, di gessi, di colle, di cementi, di vernici traslucide, il pittore rappresenta il riposo di Dio come un nero quadrato lucente e specchiante sospeso fra la striscia azzurro-celeste di infiniti cieli e la calda rugosità bruno-ocra della terra. Il visitatore che si avvicini a quest’ultimo dipinto vedrà la sua immagine riflessa nel quadrato.
Qui si chiude il ciclo cosmogonico di Demarchi perché dopo c’è il giorno che nella mostra non può esserci perché è ineffabile e irrapresentabile. Dopo c’è 1′ “octava dies” di cui parla Agostino, il giorno senza tramonto dell’eternità.


© Roberto Demarchi 2017 | English version

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