EVENTI: La Passione secondo Matteo - Vangeli astratti - Genesi del Mondo e Genesi dell'arte - Genesi - Monografia


MONOGRAFIA

Yves Bonnefoy
Dévotion.
Cesare Greppi
Dal Confine.
Günter Kunert
Sparse sul sentiero del bosco.
Nel sentiero d’ombra
Pavlos Màtesis
Per la pittura di Roberto Demarchi da uno scrittore che
impara a scrivere da Goya
.
Titos Patrikios
Caos e luce nella pittura di Roberto Demarchi.
Camillo Pennati
I fondi nero di Demarchi.
Giovanni Raboni
Come uno che sta sognando e sa
Roberto Rossi Precerutti
La città della mente di Roberto Demarchi.
A un remoto fiammeggiare. Omaggio a Roberto Demarchi.
Emanuele Severino
Luce che brilla ovunque, oscurità dei sentieri, potenza della verità.
Andrea Zanzotto
– (Giù, lungo la stradella nella forra con viva corrente).

LA CITTA’ DELLA MENTE DI ROBERTO DEMARCHI
di Roberto Rossi Precerutti

Forse Torino non è «la città più triste e cupa del mondo», come ebbe a scrivere il poeta Fédor Tjut’cev, giunto nella capitale sabauda nell’agosto del 1837 per ricoprire l’incarico di primo segretario della missione russa. E non è neppure, nonostante l’opinione di più tetragoni propalatori di loci communes, stazione ineludibile e specchio della disperazione o della follia di grandi menti: scontato è infatti il riferimento al breve soggiorno di Torquato Tasso che, nella primavera del 1579, fugge dalle rive del Po per andare incontro (quanto inconsapevolmente?) alla carcerazione nell’ospedale ferrarese di Sant’Anna e a una lunga desolazione illuminata a tratti dal dono di una scrittura dolorosa e severa, oppure al crollo psichico di Friedrich Nietzsche che, nel gennaio del 1889, invia dal capoluogo sabaudo i suoi drammatici «Biglietti della pazzia».
Torino è piuttosto una città di malinconica e silenziosa grazia, di esatte geometrie attraversate dal fuoco sottile della maraviglia barocca, di spazio che, inteso come realtà psicologica, si commuove di metafisica luce vittoriosa s’incorona di vertigini e d’ombra – quanto è viva, nel Guarini, l’anima’ borrominiana! Il reticolo euclideo delle sue vie, lasciato dal castrum romano, lo diresti percorso dall’euritmico passo della Gradiva, la fanciulla di un celebre bassorilievo d’età classica cui Freud dedicò un importante saggio.
Ecco, Torino è la città di questo passo, che è un andare oltre, verso un fiammeggiante nessundove. E un luogo “dove si può morire” (si pensi alla sorte del grande lirico Clément Marot, che qui si spense nel settembre del 1544), dove cioè è consentito rivolgere alle cose uno sguardo “distante” – il tempo di Torino appare talvolta un po’ sfasato rispetto al tempo della storia, e lontani sono i luoghi del potere politico, economico e culturale -, ma proprio per questo più profondo e, in qualche modo, “definitivo”. Uno sguardo che sa cogliere nella bellezza della città un che di funebre, poiché essa si costituisce in allegoria di un itinerario che trasforma il soccombere, come destino di ogni cosa, in restituzione alla terra, a tutto ciò che è fragilmente e, insieme, supremamente umano.
Ne consegue che, per un artista, Torino sia uno spazio in grado di precisarsi e di comporsi soltanto alla luce di quello sguardo “di dentro”, una città della «mente», designando con tale termine di remota ascendenza cavalcantiana la sede della conoscenza, il sé, lo spazio entro il quale si consuma il dramma interiore.
Non fa eccezione Roberto Demarchi che nel capoluogo piemontese, dove è nato nel 1951, tuttora vive e lavora. Nel suo percorso, iniziato assai precocemente sotto la guida di Ríccardo Chicco e profondamente segnato dagli studi di architettura e filosofia, egli ha consapevolmente scelto rari momenti di pubblica visibilità (1969, Galleria Cassiopea di Torino, con presentazione di Angelo Dragone; 1990, personale presso il Centro Incontri Avigdor di Torino), rimanendo sostanzialmente estraneo alle vicende artistiche di una città ha pur ha conosciuto, nel Novecento, personalità e movimenti di rilievo nazionale: senza pretese di esaustività, basti qui ricordare la presenza e il magistero di Felice Casorati, le figure del critico Lionello Venturi e del mecenate Riccardo Gualino, l’attività del Gruppo dei Sei o, ancora, le più recenti esperienze dell’Arte povera.
Una simile estraneità, tuttavia, è stata ed è, in Demarchi, qualcosa di programmatico, se non di obbligato. Il rapporto, tutto interiore, del pittore con la città, infatti, sta proprio in questo non riconoscesse come l’idealità modellizzante il non marginale ruolo che essa ricopre nell’arte italiana del ventesimo secolo: Torino ha donato a Demarchi quello sguardo “distante” e “definitivo” cui si è accennato; gli ha permesso la conquista, direbbe Nietzsche, di «una seconda più pericolosa innocenza», in modo che egli non possa vedere nient’altro che «forma e anima».
Di conseguenza, la “torinesità” di questo appartato ma non isolato maestro, ben lungi dall’esaurirsi nei piccoli riti di un dignitoso mestiere e di una gloriola locale, si traduce nella vertigine del confronto. con modelli “altri” e supremi. Innanzi tutto, il miracoloso e drammatico equilibrio tra masse cromatiche creato da Nicholas De Staél, la liberazione lirica dei piani di colore – come ha scritto Butor – delle grandi opere di Mark Rothko, il segno impervio e la materia ascetica di Alberto Burri e di Antoni Tápies. Ma anche le geometriche fantastiche di un Paolo Uccello e la dissimulata febbre che abita i corpi di Piero, e ancora il colore metallico e intellettuale di certo manierismo (Pantormo, Rosso), l’indescrivibile luce come d’allarme e di grazia che trafigge gli interni di Caravaggio, il radioso grumo di splendore che dimora nei panneggi e negli sfondi di Velázquez.
Ora, la presente monografia non nasce soltanto dall’esigenza, pur legittima, di dar conto di un momento significativo e compiuto dell’opera di Demarchi – il ciclo intitolato, con evidente memoria del pensiero presocratico, Perì phýseos – , ma anche come occasione per scoprire la complessità culturale che illumina il confronto sopra accennato. Di qui, l’idea di raccogliere le testimonianze che studiosi di varie discipline, ma soprattutto narratori e poeti, hanno voluto rendere al lavoro dell’artista torinese, nella convinzione che la scrittura letteraria, al pari del linguaggio critico, possa essere portatrice di feconde scoperte gettando nelle forme e nei colori il “disordine” della sua “innumerevole” comprensione.

 


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