Claudio Strinati – presenta “Vangeli astratti” di Roberto Demarchi

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Claudio Strinati
presenta “Vangeli Astratti
di Roberto Demarch

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Claudio Strinati – presenta “Vangeli astratti”
di Roberto Demarchi

Questa mostra da un lato riflette in modo profondo gli ideali figurativi ed etici di Roberto Demarchi e dall’altro è strettamente vincolata al luogo di esposizione, la chiesa di Santa Rita a Roma. L’edificio ha subito una sorte strana e singolare e da molto tempo è diventato spazio espositivo del Comune di Roma acquisendo una posizione rilevante nell’ambito delle attività culturali della città eterna. È un esempio straordinario di sopravvivenza perché la chiesa fu salvata dalle demolizioni,
spostata dal luogo in cui si trovava e ricostruita nelle forme originali. È, dunque, se stessa e altro da sé e non si potrebbe immaginare un sito più emblematico per incontrarsi con l’arte del maestro Demarchi.
Il pittore, infatti, presenta qui un itinerario che è nato proprio per il luogo in cui viene esposto ma, nel contempo, propone un discorso di respiro universale che prescinde da qualunque luogo fisico e che è, in verità, un vero e proprio luogo dell’anima. Si tratta di un insieme di carattere religioso e quindi perfettamente idoneo allo spazio di una chiesa. Dodici dipinti che, in astrazione, interpretano una serie di momenti cruciali tratti dai Vangeli, installati su strutture pensate e realizzate dall’artista stesso (Demarchi è pittore e architetto) per creare un ciclo vero e proprio, quasi all’uso degli antichi, con un linguaggio che non si potrebbe concepire più moderno e audace.
Demarchi si iscrive in una tradizione di pittura astratta che ha precedenti illustri, italiani e stranieri, ma il suo modo di esprimersi è veramente unico e singolare e non può essere rapportato ad altre esperienze. Vi è nel suo pensiero figurativo astratto una sintesi singolare di speculazione filosofica e di istinto libero e scevro da qualunque intellettualismo. È rigoroso, il maestro Demarchi, fino a un limite estremo che non ammette compromessi o modifiche rispetto alle acquisizioni cui è giunto.
Se ne ebbe una interessante dimostrazione qualche anno fa quando, per la cura di Antonio Paolucci, Demarchi presentò, nel suggestivo spazio espositivo presso la chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, una mostra dal titolo “Genesi del Mondo e Genesi dell’Arte” in cui erano contenuti i presupposti che conducono all’odierna mostra in Santa Rita.
In quella esposizione precedente c’era modo di conoscere bene il solenne impatto del linguaggio di Demarchi che è pura astrazione ma carica di contenuto, carica di storia, carica di emotività.
Il dato importante e in qualche misura sconcertante è la somiglianza e la diversità tra le singole opere e l’incredibile gamma di sfumature che trasformano una forma perfettamente astratta in elemento narrativo.
Quella mostra e l’attuale raccontano delle storie e si potrebbe restare sorpresi nel notare come gli elementi con cui il maestro compone le sue opere siano ridotti all’essenziale.
Ogni quadro si manifesta come una sorta di epifania in cui le forme geometriche si presentano di fronte all’osservatore inducendolo a un rallentamento del tempo di percezione e a una forma peculiare di meditazione e quiete dello spirito.
In controtendenza rispetto a tanti aspetti della nostra epoca, Demarchi procede a una misura dilatata del tempo di osservazione e induce chi guarda a un superiore rispetto della pittura in se stessa. Sono, dunque, poche ed essenziali forme geometriche che potrebbero apparire simili le une alle altre e potrebbero apparire, a una osservazione frettolosa e superficiale, quasi vuote di senso. E invece significano personaggi e significano azioni e il bello è che questo slittamento di senso avviene con estrema naturalezza senza alcuna forzatura da parte dell’artista che trasmette con semplicità ed efficacia le intenzioni del suo animo attraverso una delicata e nel contempo incisiva “azione” pittorica, per cui le forme si animano e assumono un peso emotivo di lampante evidenza che non ha bisogno di troppe spiegazioni ma si impone di per sé, per la forza della stesura pittorica, densa e profonda.
Ma l’aspetto ancor più singolare è che Demarchi ci propone un discorso tradizionale e lineare nei suoi presupposti concettuali, e innovativo e complesso nella forma espressiva. Ci parla dei Vangeli e ci conduce in un itinerario che, come in antico, culmina nella zona dell’altare maggiore e ci accompagna in una delle più alte meditazioni che un essere umano possa attraversare, quella sulla storia di Cristo ripercorsa secondo un cammino su cui innumerevoli artisti del passato ci hanno condotto, ciascuno secondo il suo linguaggio e la sua sensibilità.
E Demarchi si iscrive in questa tradizione, con umiltà e ferma certezza del proprio essere, consapevole di essere giunto a una propria maturità espressiva che gli permette di mantenere una coerenza e un acume indiscutibili.
I quadri, allora, diventano come i mattoni che costruiscono la materia vivente delle opere stesse, sono come parti elementari di un discorso di eletta complessità che si compongono e scompongono tra loro, sempre ricreando nuovi contesti, tutti simili e tutti diversi, in un procedimento nel quale ogni opera si rispecchia nell’altra. È, appunto, l’antichissimo e sempre risorgente argomento della somiglianza e della diversità che Demarchi recupera e attualizza attraverso il suo peculiare linguaggio.
Si sfiora quasi una idea di misticismo, peraltro aderente al contenuto religioso delle opere, proprio su questa ipotesi della uguaglianza e della differenza, per cui il pensiero scopre la radice profonda dell’identità di tutte le cose e nel contempo ne rintraccia peculiarità specifiche. Si potrebbe persino azzardare l’idea che le immagini formulate dal maestro siano sentite dall’autore e dai fruitori come impronte di immagini che restano gravide di un passato misterioso e che tuttavia si manifestano
in tutta la loro evidenza mantenendo in sé quella dimensione di mistero e di inconoscibile che pertiene strettamente alla religiosità presente in ogni essere vivente, a prescindere dalla fede praticata o meno da ciascuno.
Demarchi, in effetti, ci fa vedere una dimensione altra e ulteriore, una sorta di iperuranio che è assoluto presente e radicata memoria, è rigore di pensiero ed emotività fremente ma come nascosta.
C’è in Demarchi un presupposto classico; c’è proprio quella idea del Bello che fu individuata tanti secoli fa come quintessenza dell’arte e resta intramontabile. L’universo è forse scritto in forme geometriche come voleva Galileo Galilei? È impossibile dirlo, specie oggi di fronte alle straordinarie esperienze della scienza moderna, ma quale concetto resta pur sempre una potente suggestione che può transitare a pieno titolo nel linguaggio dell’arte, ieri come oggi.
Ma non c’è dubbio che Demarchi, nei suoi incantati dipinti, scruta la natura umana che pensa, soffre e nutre sublimi aspirazioni dentro la gabbia geometrica che la natura stessa le ha conferito.
Ed ecco che le opere, tutte insieme, danno l’idea di una cerimonia solenne e silenziosa che non può essere interrotta o turbata da alcun segno diverso. La sacralità di questi dipinti è intrinseca al linguaggio con il quale sono stati formulati.
E noi, paradossalmente in una sorprendente vertigine della mente, possiamo vedervi tutto e il suo contrario. Possiamo, cioè, percepirle come dure, impenetrabili, rigide e, nel contempo, vederle come ipersensibili, soffuse, morbide. Ma è logico che sia così perché questi dipinti magistrali riflettono proprio la duplicità della natura umana che non è fatta mai di un’unica dimensione ma è perennemente sospesa tra mondi contrastanti in una incessante dialettica del vivere e del pensare.
Demarchi crede profondamente a una sorta di linguaggio universale che è quello dell’arte e che si articola poi in tante tecniche artistiche. È, tra l’altro, un cultore profondo di studi musicali e ha ripetutamente sondato le equivalenze tra linguaggio pittorico e linguaggio sonoro.
E questa universalità del pensiero trova nell’arte il suo punto culminante. Si avverte bene in questa mostra, che segna una tappa significativa nel percorso di un artista che ha una profonda e laicissima fede nella dimensione universale del retaggio pittorico, la volontà di porsi in un punto di equilibrio tra evidenza e mistero, tra semplicità assoluta e complessità insondabile. Non si può definire un simile atteggiamento nei termini di “moderno” o “avanguardistico”, anche se il linguaggio di Demarchi è iscritto in modo perentorio nei termini di una modernità rigorosa e intransigente.
Ma l’obiettivo della sua arte non è diverso da quello della grande arte rinascimentale o barocca. È, in altri termini, un intento comunicativo che vuole coinvolgere l’osservatore in una esperienza globale fatta di bellezza e di armonia.
E sono questi i termini eterni del messaggio artistico per cui sembra lecito ricordare come un maestro, quale è Demarchi, si inserisca in una storia antica e insieme avveniristica. Del resto questo è sempre stato nelle esperienze veramente rimarchevoli della storia della nostra arte e la mostra odierna ci permette di incontrarne un esponente di rilievo in grado di dire qualcosa di veramente nuovo nel rispetto di una tradizione intramontabile che ancora una volta si rinnova e ci insegna cose sorprendenti e inattese e pur così vere e condivisibili.